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Dal  Bar MITZVAH di Vincenzo Yehuda Caruso

10/02/2023 06:23:07 PM

Feb10

Vincenzo Yehuda Caruso


Parashà Beshallach

Una introduzione breve.

 

Abbiamo il popolo d’Israele che fugge dall’Egitto. 
Durante la fuga, D-o fa retrocedere Israele che si accampa sulle rive del ‘YAM SUF’. Là viene raggiunto dall’esercito del faraone che finì, però, con l’essere sommerso dal mare, dopo che gli ebrei passarono all’asciutto in mezzo alle acque apertesi nel momento in cui Moshè, seguendo l’ordine del Signore, alzò la sua verga. Tale evento fu riconosciuto come miracoloso dal nostro popolo, che aveva riposto piena fede nel Signore e nel suo servo, Moshè.

Perché abbia scelto proprio questa parashà? I motivi sono tanti ma in particolar modo perché io amo il canto, in generale. Seppur non abbia mai fatto lezioni a riguardo.

Esso non è solo un modo per ricordare i testi delle preghiere ma perché coinvolge tutta l’intera persona.

La cantica rappresenta uno dei momenti più intensi della storia del nostro popolo, in cui viene celebrata la magnificenza di D-o per i suoi prodigi e per averci soccorso dal pericolo imminente degli egiziani. Si parla di Shabbat Shirà, "Shabbat della Cantica" ed è un poema epico che narra di eventi storici e/o bellici.

Il canto diventa qui strumento comunicativo con la divinità, anche se non l’unico, e anche manifestazione di vittoria e di libertà. Simbolo importante, insomma, dell’uscita d’Israele dall’Egitto. 

C'è un potere mistico nel canto umano: ci solleva il morale e ci porta in piedi, evocando emozioni.

Le melodie poi, quando queste vanno all’unisono, ci legano gli uni agli altri e a D-o. 

Esso, infatti, oltre che arte è anche terapia: una terapia per l’anima.

Dal punto di vista fisiologico, infatti, il movimento ripetuto del diaframma permette il rilascio di alcune sostanze che rallentano – ad esempio – proprio i battiti del nostro cuore, mentre altre sostanze sono capaci di portare qualsiasi persona a uno stato di benessere. Dunque, il canto permette di riequilibrare il proprio status psico-fisico. Ci permette di vivere il presente.

A questo se aggiungiamo altri strumenti oltre la voce, quali la musica e la danza avremo una partecipazione in rapporto con la divinità non solo fatta di parole ma anche di tutto il proprio corpo e, quindi, tutto il proprio essere.

E’ utile ricordare quanto nelle religioni orientali, una parola o una frase possa servire come punto focale della preghiera. Recitando, infatti, ripetutamente anche solo una sola parola, l'adoratore o colui che prega può perdersi nell'esperienza del suono e della musicalità (principio di ‘niggun’ nel chassidismo). Tutto bello per quanto riguarda il canto in generale e quello in particolare della cantica, ma c’è un rovescio della medaglia da ricordare in tutto questo ed è la caduta degli egiziani o, se vogliamo, la caduta di coloro che non desiderano nient’altro che i nostri fallimenti, perseguitandoci quotidianamente con parole piene di cattiveria. L’invito, insomma, è a non gioire dello loro cadute, rafforzato peraltro da un bellissimo Midrash in cui si narra che:

gli angeli del Cielo stavano davanti al Signore volendo cantare una canzone. L'Altissimo risponde loro di no perché i figli d'Israele attraversano il mare e sono in pericolo mortale. Dopo che i figli d'Israele arrivarono sulla terraferma, però gli angeli ritornano da D-o di nuovo chiedendo ancora una volta di poter cantare. L'Onnipotente, però, rifiuta ancora loro il permesso e risponde: «L'opera delle mie mani affonda nel mare e voi volete cantare? La Mia misericordia include tutti gli esseri viventi.” E questo sembrerebbe anche essere uno dei motivi per cui l'Hallel viene recitato a Pesach – il primo giorno completo e poi metà Hallel per i rimanenti, a prova di questo di questo dolore; c’è anche un’altra manifestazione ed è quella che riguarda il seder, inoltre: il momento in cui togliamo delle gocce di vino dal nostro bicchiere, in ricordo di quel sangue di quei figli che fu versato in mare.

 

Lasciando il canto, un personaggio/una figura importante abbiamo nel testo a cui per molto tempo è stata attribuito un ruolo quasi marginale: Miryam. 

"Miryam, la profetessa, sorella di Aronne..." – Esodo 15:20

Miryam è la prima donna della Torah ad essere chiamata 'naviah', profetessa. Nata in un periodo molto buio per il popolo ebraico, in un tempo in cui l'amara schiavitù aveva oltrepassato ogni limite. Dai testi sacri ci viene presentata come figura carismatica e leader.

La maggior parte fa risalire il nome alla radice della parola ‘Marà’– amarezza, ma Miryam ricordiamo che nacque in Egitto. La radice del suo nome potrebbe essere derivata da ‘Meri’, che indica la ‘ribellione’: Colei che è ribelle. La desinenza finale all’interno del suo nome - YAM, però, può anche richiamare il mare e, in generale all’acqua (tra le varie traduzioni, infatti, abbiamo anche ‘goccia di mare’).

Quello che si crea, se riconduciamo il suo nome a quest’ultimo significato, è un gioco di parole tra 'Shirat HaYam' – Cantica del Mare (secondo il Talmud Yerushalaim, II secolo) e 'ShiratMirYam' – Cantica di Miryam. Un gioco di significati, insomma, che avrebbe permesso di dare un significato diverso a questa cantica e anche importanza probabilmente alla voce di molte donne in Israele e di comprendere i testi della tradizione con una visione, magari, più equa ed egualitaria. Shirat HaYAM/ ShiratMirYAM.

La tradizione divide il canto in due parti: uno composto da uomini e l’altro da donne, attribuendo a Moshè l’intero brano e dando ai versetti di Miryam un ruolo antifonale. Li analizzeremo in breve, con la speranza di non annoiarvi, e poi vi svelerò il motivo per cui abbia inserito i due versetti di Miryam.

Negli anni sono sorti dubbi e quesiti sull’attribuzione della Cantica, se a Moshè o Miryam, dubbi aumentati dalle scoperte di altri 7 frammenti di versetti presso il sito archeologico di Qumran.

Entrando nel vivo dei due canti e dei relativi versetti, troviamo un poema che inizia con “Az yashir Moshè”, (‘poi Mosè canterà”).

Non abbiamo accenno di “Moshè e uomini” che cantano la canzone, ma di Moshè e del popolo d’Israele (parla, quindi, in generale); inoltre, nel testo troviamo הַזֹּאת cioé di ‘questo canto’, che indica un canto in generale e non nello specifico quello di Moshè. 

Nei versi che seguono, differenti tempi di coniugazione:

- la cantica di Moshè (Esodo 15:1b) – ashirà (Canterò/voglio proprio cantare) 

- la cantica di Miryam (Esodo 15:21b) - shirù (cantate).

Abbiamo una prima persona singolare da una parte e una plurale dall’altra; un verbo al futuro per quanto concerne gli uomini (canterò), un imperativo plurale per le donne (cantate).

La nostra naviah, dunque, risulta in connessione diretta con il suo popolo e questo mi lascia pensare anche a un ruolo di grande responsabilità all’interno della comunità, atteggiamento degno di una leader.

Un altro dubbio sorge poi con il verbo וַתַּעַן che viene tradotto come ‘cantare ad alta voce’, ma secondo alcuni commentatori anche come “guidò nel canto”. Come se fosse lei a condurre il popolo a lodare il Sign.re, cantando. Ma chi guidò? Loro. Un loro che è "LAHEM" al maschile e non "LAHEN" al femminile. Non rivolgendosi a donne, il suo cantare è rivolto a loro come uomini o come pubblico misto, dunque? I saggi hanno risposto a tutto questo affermando che lei si fosse rivolta agli angeli e non agli uomini.

Altri esempi, che possono rafforzare il concetto secondo cui la Cantica potrebbe appartenere a Miryam, sono quelli relativi ad altre donne come Deborah, di cui oggi leggiamo l'Haftarah, è uno dei tanti esempi di donne che celebrano i prodigi divini. Del resto, era normale per quei tempi cantare, suonare e danzare per ringraziare D-o di quanto miracolosamente concesso.

 

Il canto di Miryam è un canto che coinvolge, dunque. La sua vocesi innalza (vetaan) e irrompe il silenzio. Penetra gli animi delle persone ora arrivate, affrante, con la pesantezza di ciò che è stato fino ad adesso, carichi di tristezza e con pensieri confusi e pieni di paura su ciò che il futuro possa dar loro. Una performance tutta al femminile. Una voce che va a fondo, scava come l’acqua che penetra la roccia più dura. Apre i cuori e li risveglia alla lode gioiosa, così che la partecipazione non è solo fatta di parole ma coinvolge l’intero essere, se pensiamo che questa viene accompagnata anche dalla musica e dalla danza.

Una celebrazione che trascina non solo il singolo ma l’intera comunità ora stanca, con quel ‘Cantate’ imperativo, a vivere il presente e ringraziare del miracolo ricevuto, lasciando andare i pensieri riguardo il passato e quelli relativi al futuro. 

Miryam diventa così per tutti noi simbolo di guida e libertà; non solo libertà dalla schiavitù egiziana, ma anche libertà di espressione. 

Perché ho scelto di parlare proprio di Miryam?

In pratica perché proprio qualche settimana fa, mentre cercavo di scrivere qualche riga per questo giorno, una notizia non mi ha lasciato per nulla indifferente in rete. Su uno dei noti giornali israeliani c’era un articolo con su scritto che in Israele venivano e vengono fatti convegni/congressi/eventi che parlano del ruolo della donna senza che nessuna di queste fosse in sala. Credo che sia una cosa di una tristezza immensa.

 

Allora alla figura di Miryam e delle altre donne che cantano e danzano per ringraziare HaShem ho pensato a tutte quelle donne ribelli (riconnettendomi al significato della radice del nome di Miryam) che al Qotel, durante ogni Rosh Chodesh innalzano il proprio canto. Bello tutto questo, vero?

Bello sì, diremmo come risposta, ma… anche qui c’è un’altra faccia della medaglia; queste donne infatti vengono: maltrattate, insultate, derise, lasciate cadere a terra con in mano non solo un ‘tof’ (un cembalo) ma anche e addirittura con un Sefer Torah, proteggendolo con i loro corpi per non fare in modo che tocchi a terra; donne a cui vengono strappati i siddur e a cui viene lanciato del caffè caldo sui loro scialli. Ma chi sono queste donne? Sono donne che hanno il coraggio di affrontare quel maschilismo che supera ogni limite, la cui voce non viene raramente ascoltata ma anzi cerca di essere in qualsiasi modo silenziata. Parlo di donne la cui caparbietà permette oggi la libertà di molte di loro di esprimersi liberamente nonostante tutto.

La cosa che mi colpisce di più, inoltre, è che ogni attacco di qualsiasi tipo nei loro confronti accade non solo da parte di uomini, ma anche dalle stesse donne, che dovrebbero in qualche modo esprimere solidarietà.

La risposta arriva dal loro coro, proprio di questi giorni. Tra l’assordante altoparlante e le voci o meglio urla sovrastanti delle donne della zona femminile, le Women of the Wall (WOW) hanno ora un coro che canta la libertà, che è diventato simbolo della loro resistenza, per un pluralismo religioso e inclusivo.

 

Concludendo: Voglio augurare a tutti di nutrirci di quella giusta ribellione contro chi, oggi, cerca di zittirci e calpestare i nostri diritti.

 

Shabbat Shalom

Incontro con l’Ambasciatore israeliano Alon Bar

01/02/2023 08:27:00 PM

Feb1


Mercoledì 1 febbraio  i rappresentanti dell'Ebraismo Progressivo Italiano e della Organizzazione Sionista Reform in Italia hanno incontrato l'Ambasciatore israeliano Alon BAR.
Durante la distesa e piacevole conversazione i rappresentanti FIEP (Federazione Ebraismo Progressivo in Italia) e il rappresentante di Arzenu Italia hanno ribadito i forti legami ideali e storici con Israele, ma hanno anche mostrato perplessità per alcune iniziative del Governo da poco nato e preoccupazione per il futuro del pluralismo in Israele.

 

FIEP - Federazione Italiana per l'Ebraismo Progressivo e ARZENU Italia

Grazie della visita!

13/01/2023 01:00:00 PM

Jan13

Grazie della visita alle bambine e ai bambini della Scuola Primaria Foppette e alle loro maestre.

Durante i due incontri, dopo il saluto di Carlo Jossef Riva, Presidente della FIEP, la Professoressa Elena Lea Bartolini De Angeli ha fatto una lezione sull'ebraismo e ha risposto alle loro numerose domande.

A Bruno Di Porto

08/01/2023 09:00:00 PM

Jan8

Carlo Jossef Riva

Ecco il messaggio letto ai funerali di Bruno Di Porto z''l:

 


8 gennaio 2023

Caro Bruno,


a causa di acciacchi oggi non posso essere presente a Pisa per salutarti. Ciò mi rattrista fortemente non solo perché non posso farlo come rappresentante di quell’ebraismo progressivo italiano per cui ti sei speso così tanto nella tua vita, ma perché sei stato davvero molto importante anche per me e la mia famiglia.
Ti ho incontrato – a te ero legato anche da una comune passione per la storia e il giornalismo – nel 1999 in quella che, in pratica, è stata la prima riunione di quel nucleo che, insieme a rav David Goldberg z”l, ha portato alla fondazione, a Milano, di Lev Chadash, la prima sinagoga progressiva italiana. E subito ti sei proposto come punto di riferimento e maestro, facendo poi la spola tra Pisa e Milano per celebrare con noi lo Shabbat, nella tua funzione di nostro lay minister, e accompagnando col tuo insegnamento l’ingresso dei primi nostri gherim all’interno del popolo ebraico.


Coltissimo, curioso, arguto, ironico, capace di una forte empatia e umanità, ti presentavi, anche nella scrittura, con lo stile di uno studioso di inizio Novecento, che incredibilmente riusciva ad abbinare a una grande attenzione per la modernità. Non a caso, nel tuo insegnamento hai sempre proposto un ebraismo aperto, inclusivo, presente nella società, ma contemporaneamente fortemente legato alla tradizione e alle fonti. Un aspetto, quest’ultimo che, negli ultimi anni, ti ha reso particolarmente molto vicino alla nostra rabbina Sylvia Rothschild.


Esperto politico, nei momenti difficili che hanno segnato la crescita della nostra comunità – quante le ore passate con te al telefono per trovare soluzioni – non ti sei tirato indietro, assumendoti anche la responsabilità della gestione come presidente. Una guida, la tua, sempre improntata alla moderazione, alla mediazione e alla ricerca del consenso – senza però mai cedere nei principi – richiamando sempre al rispetto della pluralità di posizioni che da sempre esistono all’interno del mondo ebraico. Una linea che, nelle tante occasioni in cui le nostre posizioni sono state caricaturizzate, il movimento progressivo ha fermamente mantenuto e che ha e che ha contribuito al suo radicamento, sconfiggendo ogni tentativo di marginalizzazione.
Ancora negli ultimi anni, sia pure diradando inevitabilmente la tua presenza, ci sei stato, Bruno, molto vicino, rinnovando puntualmente la tua adesione ed il tuo contributo a Lev Chadash, e, soprattutto, continuando a rappresentare un punto di riferimento costante e una fonte di consigli alla quale era imprescindibile rivolgersi. Inoltre, da storico, non mancavi di contattarmi per richiedere materiali per il tuo archivio.
E’ anche per questo che gran parte della nostra storia e della tua attività e del tuo pensiero, li si può ritrovare nei tuoi articoli e nelle brevi cronache pubblicate su “Il tempo e l’idea” (“Ha-zeman ve-ha-erayon”), la testata da te fondata e di cui sei stato l’animatore, oltre che nel tuo libro “Il movimento di Riforma nel contesto dell’Ebraismo contemporaneo”, nel quale hai tenuto a sottolineare come sia un grave errore – in tanti casi motivato da disonestà intellettuale – considerare le idee progressive un “fenomeno di importazione”, perché già presenti nel pensiero di molti grandi maestri dell’ebraismo italiano dell’Ottocento.


L’ebraismo italiano, non solo quello progressivo, ti deve tantissimo, Bruno. Ed è per questo che, in continuità con lo spirito con cui hai sempre improntato il tuo insegnamento, ci impegniamo a lavorare, cercando di superare difficoltà e incomprensioni, con l’obiettivo di arrivare a un confronto all’interno dell’ebraismo italiano che, nel pluralismo, porti a una sua crescita e a un suo arricchimento. Un obiettivo per il quale, Bruno, hai lottato tutta la tua vita.

Lev Chadash e tutte le comunità aderenti alla Federazione Italiana per l’Ebraismo Progressivo si stringono con un abbraccio a tutta la tua famiglia. Sia, Bruno, il tuo ricordo di benedizione.

 

Carlo Jossef Riva

Presidente della Federazione Italiana per l’Ebraismo Progressivo

Meina 2022

07/10/2022 07:20:00 PM

Oct7

da Carlo Riva

Saluto le autorità presenti e ringrazio il sindaco Fabrizio Barbieri per avermi invitato a partecipare. Purtroppo non posso essere presente perché il Covid mi ha colpito per la seconda volta, anche in questo caso fortunatamente sembra farlo piuttosto debolmente.

Mi dispiace molto non poter essere qui alla commemorazione dell’eccidio del settembre del 1943 e di non poter rispondere – soprattutto oggi –  con la mia presenza anche fisica a quel Zakor, imperativo che impegna ogni ebreo a ricordare.

Nella lingua ebraica il verbo Zakor, ricordare, non è una semplice rievocazione di un passato per noi troppo spesso tragico, ma è anche un invito ad agire soprattutto un invito a trarre insegnamento da quel che è stato e a raccontarlo anche a quanti vivono accanto a noi, perché ciò che di sbagliato ha attraversato la storia non si ripeta. Probabilmente da qui deriva il fatto che solo presso Israele – e mi riferisco all’intero popolo ebraico – l’ingiunzione a ricordare sia sentita proprio come un comandamento religioso. Ricordare non è un compito facile. Oltretutto presuppone un contesto di attenzione. Sempre più difficile da ottenere, se pensate che il successo di un video sui vostri cellulari è basato, dicono gli esperti, sulla sua capacità di agganciarvi nel primo secondo e mezzo di visione. Così, non c’è da stupirsi che molti ritengano il ricordare una sorta rumore di fondo da sopportare inevitabilmente al massimo in occasione di qualche rituale.

Inoltre, se ci pensate bene, ricordare è spesso davvero fastidioso, genera problemi e discussioni. Capita tante volte a ognuno di noi nella vita quotidiana, figuratevi per quei popoli che non hanno mai fatto bene i conti con la propria storia, trovando sempre qualche modo per autoassolversi dalle proprie infamie. Gli esempi anche in tempi recenti abbondano, vicini e lontani. Con la sua arte lo ha capito perfettamente Gunter Demnig, l’artista tedesco che proprio qui all’imbarcadero qualche anno fa ho visto cementare, dopo averle create, le pietre con i nomi delle vittime dell’Hotel Meina. Oggi i giovani di Balagan della mia sinagoga milanese di Lev Chadash le hanno rilucidate. E li ringrazio. Ma forse per assolvere meglio il loro compito, come spiega bene il loro nome, quei blocchetti di pietra e ottone dovrebbero passare quasi inosservati così da diventare davvero una trappola per far inciampare, interrompendo almeno per qualche attimo il flusso dell’indifferenza.

Ho studiato storia, ho fatto anche una tesi sulla Shoah, in aggiunta ho lavorato come giornalista, e forse, proprio per questo, molte volte sono giunto alla conclusione che la definizione ‘Storia maestra di vita’ sia solo un semplice espediente retorico con cui Cicerone ha infarcito la sua oratoria. Ciò nonostante, continuo ostinatamente a credere in quell’imperativo Zakor, in quel monito che ci fa ritornare ogni anno a Meina, che ci fa proseguire, soprattutto nell’incontro con i giovani, come ci ha insegnato una testimone diretta, Beki Ottolenghi, a ricordare quel che è stato. Lo dobbiamo alle 16 vittime dell’Hotel Meina e alle altre 41, uccise in otto comuni del Lago Maggiore in quel settembre del 1943. Dobbiamo continuare a ricordare per loro, ma anche per noi e soprattutto per chi verrà dopo di noi. Dobbiamo approfittare di ogni occasione usando ogni mezzo. Proprio per questo non si può accogliere che con un plauso l’annuncio della prossima apertura degli archivi comunali di Meina.

Come ebrei, come comunità progressive riunite della Fiep ci impegnamo a collaborare attivamente, lo abbiamo fatto in questi anni, a tutte le iniziative che ci facciano rispondere attivamente a quell’ingiunzione, Zakor, che per noi è anche un modo concreto per contribuire a salvaguardare e sviluppare le libertà democratiche contro ogni tentazione di autoritarismo e di minaccia della pace. 

 

Carlo Jossef Riva,

presidente della Federazione Italiana per l’Ebraismo Progressivo

RINNOVAMENTO

23/09/2022 04:14:45 PM

Sep23

di rav Sylvia Rothschild

Immagino che di tanto in tanto tutti noi ci chiediamo come siamo arrivati qui: tutte le coincidenze casuali e le improbabilità statistiche che hanno fatto sì che i nostri antenati si incontrassero e generassero figli; tutte le guerre, le migrazioni e gli sconvolgimenti sociali che avrebbero potuto cambiare così facilmente le nostre storie. Anche nella storia più recente della mia famiglia, se i genitori di mia madre non fossero fuggiti dall'oppressione dell'Impero russo e se mio padre non fosse stato mandato da giovane adolescente a fuggire dalla Germania di Hitler - finendo entrambi casualmente nella stessa città del nord - io non sarei mai nata. 

E se vado più indietro nel tempo, scopro che nel mio albero genealogico ci sono personaggi che hanno combattuto duramente contro l'ebraismo che mi dà la mia identità e la mia passione - l'ebraismo riformato -. Il mio trisavolo Levi Yehudah Spanier, presidente della sinagoga (ortodossa) Beth El di Albany, New York, all'inizio era molto amico del suo rabbino, il dottor Isaac Mayer Wise, ma finì in una serie di accese e violente dispute sulle tendenze riformate del dottor Wise, al punto che alla fine licenziò il dottor Wise dal suo incarico di rabbino della comunità con effetto dal 6 settembre 1850, lo shabbat del giorno precedente Rosh Hashanah. Il dottor Wise rifiutò di accettare il licenziamento e si presentò in sinagoga il giorno di Rosh Hashanah. Ecco la sua descrizione di ciò che accadde in seguito:

"Tutto era silenzioso come una tomba, Infine, il coro intona il grande Ein Kamochadi Sulzer. Al termine del canto, mi avvicino all'arca per estrarre, come di consueto, i rotoli della legge e per offrire la preghiera. Spanier si mette sulla mia strada e, senza dire una parola, mi colpisce con un pugno che mi fa cadere il cappello dalla testa. Questo fu il terribile segnale di un tumulto che non avevo mai sperimentato. I presenti si comportarono come una furia. Era come se la sinagoga fosse improvvisamente esplosa in una fiammeggiante conflagrazione". 

La rissa fu così forte che fu chiamato lo sceriffo, il quale fece sgomberare la sinagoga, chiuse le porte e prese le chiavi. Questa fu la fine della posizione di Wise al Tempio Beth-El e l'inizio del Movimento di Riforma negli Stati Uniti, con le sue numerose sinagoghe, il Collegio Rabbinico HUC, la Conferenza Centrale dei Rabbini Progressisti e l'affermazione dell'Ebraismo Riformato come espressione ebraica maggioritaria negli Stati Uniti.

Così il mio trisavolo, nel suo desiderio di far finire l'ebraismo riformato, ne ha invece accelerato la crescita, e periodicamente mi chiedo cosa avrebbe pensato delle scelte dei suoi discendenti di diventare rabbini riformati.
Poi c'è Moshe Sofer-Schreiber, mio lontano cugino. Più conosciuto come Chatam Sofer, è talvolta descritto come il padre dell'Ortodossia e il flagello dell'Ebraismo Riformato. Nato a Francoforte nel 1762, fu uno studioso di spicco in diverse prestigiose yeshivot. Tuttavia, il suo pensiero non fu sempre così accettabile per il mondo ebraico. In gioventù fu profondamente legato a Natan Adler, un cabalista i cui seguaci praticavano la nuovissima forma di ebraismo nota come Chasidut. Il gruppo era noto per le sue tendenze religiose rivoluzionarie: pregavano la liturgia sefardita pur essendo ashkenaziti, indossavano i tefillin secondo l'usanza di Rabbenu Tam, formavano e pregavano in minyanim separati e indipendenti, seguendo generalmente usanze chassidiche di cui nessuno aveva mai sentito parlare prima. Il mondo ebraico ashkenazita, a cui appartenevano, non era contento di vedere tali cambiamenti nei costumi e nelle tradizioni e iniziò a perseguitare Rabbi Adler e i suoi seguaci. Alcuni rabbini di spicco scrissero infatti attaccando la "nuova setta" che, a loro dire, "con grande superbia nel cuore non si è curata delle usanze del popolo ebraico, di una Torah fissata dall'antichità secondo i nostri antenati z "l e le ha cambiate con la crudezza dei loro spiriti". L’establishment ebraico li identificò come un fenomeno pericoloso, simile al sabbateismo.
In un pamphlet intitolato ‘Un atto di inganno’, pubblicato a Francoforte nel 1789, il rabbino Nathan Adler e i suoi accoliti vennero accusati di voler "distruggere le fondamenta dei nostri costumi, tagliare le radici della nostra tradizione ricevuta, costruire nuove maniere [...] e nella loro audacia gallica, si sono fatti beffe dei nostri santi padri, e rinnegano coloro che portano la tradizione ricevuta, e i saggi che hanno fondato i nostri buoni costumi sono per loro come cavallette ".
Questa furia conservatrice portò alla scomunica del rabbino Adler. Espulso da Francoforte (1782), vagò per le comunità tedesche subendo ripetuti attacchi. Rimase scomunicato fino a due settimane prima della sua morte. Nelle sue peregrinazioni era accompagnato dal suo giovane studente, Moshe Schreiber, che sarebbe diventato noto come il Chatam Sofer.
Quello che stava accadendo nel mondo ebraico - sia tra i Mitnagdim che tra i Chassidim, con le figure imponenti del Gaon di Vilna e del Baal Shem Tov - erano considerate semplicemente posizioni che non avevano rispetto per l'opinione prevalente per cui "facciamo così perché è sempre stato fatto così". Erano pronti a cambiare la pratica dell'ebraismo, a introdurre nuove usanze, a leggere il testo in modi diversi e più moderni, a correggere le abitudini e le idee sbagliate che si erano radicate tra gli ebrei comuni.
Sarebbe esagerato dire che le basi della riforma ebraica siano state gettate da queste figure, ma il contesto in cui l'ebraismo di riforma si è sviluppato è importante. Una volta che il genio che sfidava il "fare sempre quello che si è sempre fatto" e a non permettere l'innovazione era uscito dalla bottiglia, era impossibile farlo rientrare. Mio cugino Moshe Schreiber lo scoprì mentre cresceva la sua autorevolezza come halakhista e si univa di fatto all’establishment e sembra che, con l'avanzare dell'età, la crescita del desiderio di modernità nell'ebraismo, che stava portando all’interno dell’ebraismo a un desiderio di riforma, lo abbia allarmato. Sembra che sfidare l’immobilismo e l'abitudine poteva essere accettabile se fatto dal rabbino Adler, ma quando la nuova generazione scelse di spingersi più duramente e più ampiamente, alla ricerca di spiegazioni razionali e di un insieme di comportamenti meno gravosi, egli apparentemente ripudiò le sue precedenti espressioni dell'ebraismo.
La sua innovazione più nota fu quella di insistere sul primato della consuetudine di una comunità rispetto alle argomentazioni halachiche. Sosteneva che la consuetudine di una comunità avesse la stessa importanza nella halacha di una promessa, di un impegno - e nella Torah il divieto di infrangere un voto è assoluto. Sapeva esattamente cosa stava facendo con questo passo straordinario. Rispondendo a una domanda halachica di uno studente, scrisse: "Ho parlato a lungo di questo perché, come risultato dei nostri molti peccati, i senza legge nella nostra nazione sono ora cresciuti di numero. Essi presentano una visione falsa, ridicolizzando il secondo giorno di Yom Tov, che è solo un'usanza. Non vogliono seguire le orme dei Saggi di Israele; parlano contro la loro stessa vita; non sanno e non capiscono; camminano nelle tenebre". (Responsa Chatam Sofer I, OC, n. 145)

Nel periodo pre-moderno, la consuetudine era vista come un concorrente della halacha scritta; era una ‘fonte esterna’ che a volte contraddiceva apertamente la halacha. L'’hiddush’ (nuovo insegnamento) del Chatam Sofer fu quindi un punto di svolta nella storia della halacha. Identificando la consuetudine come l'ultimo rivale della modernità e del dibattito razionale, egli ne accrebbe deliberatamente l'importanza, trasformandola in una potente arma contro la Haskalah - l'Illuminismo, che si basava sulla ragione. Non solo reinventò lo status della consuetudine, ma cambiò completamente il processo della halacha, perché ora la halacha seguiva la consuetudine anziché il contrario.
Ci sono stati altri rabbini che hanno elevato lo status della consuetudine comunitaria (ad esempio Yitzchak Alfasi, Asher ben Yechiel), ma lo hanno fatto sulla base dell'idea che gli insegnamenti orali di una comunità dovevano essere rispettati in quanto provenienti da un'epoca precedente della halacha. Il Chatam Sofer non fece così, ma basò il suo punto di vista su un legame del tutto nuovo che egli stesso aveva creato tra le usanze locali e i voti biblici.
Il Sofer Chatam creò quella che può essere definita una ‘rivoluzione conservatrice’. Perché? Perché non poteva accettare il nascente ebraismo riformato che si stava affermando intorno a lui nell'Europa illuminista. Un ebraismo di riforma che metteva in discussione usanze gravose come i due giorni di festa in diaspora e che chiedeva di dare una motivazione che andasse oltre l'imperativo emotivo del "i nostri antenati facevano così" o del mantenimento dello status quo. L'ebraismo riformato non nacque tanto dalle sfide mitnagdik o chasidiche all'"ebraismo normativo", quanto dal desiderio di portare il pensiero illuminista nell'ebraismo - ciò che oggi potremmo chiamare "scelta informata", per basare le nostre pratiche sulla ragione e sul pensiero piuttosto che sui precedenti storici o sulle parole dei saggi precedenti. E così introdusse la sua "riforma" o "rinnovamento", ironicamente per cercare di impedire che si realizzasse qualsiasi altra riforma o rinnovamento.
Il principio del Chatam Sofer come halakhista è riassunto nella sua affermazione "He'Chadash assur min HaTorah", che letteralmente significa "Il nuovo è proibito dalla Torah". Si trattava di un gioco di parole che prendeva spunto da un versetto biblico che proibiva di mangiare il grano nuovo (Chadash) fino a quando l'offerta dell'Omer non fosse stata fatta il secondo giorno di Pesach. Con questo gioco di parole si è posto il punto di partenza per quella che in seguito sarebbe stata definita "ortodossia".
Per generazioni l'ebraismo era riuscito a mantenere il suo dinamismo e la sua adattabilità alle circostanze e al contesto in cui si trovava. Solo con l'emergere dell'ebraismo modernista, influenzato dalla filosofia illuminista e dal pensiero scientifico, i tradizionalisti si sentirono così minacciati da fare qualcosa di assolutamente radicale, cercando di chiudere questo dinamismo. Eppure, paradossalmente, il Chatam Sofer puntava sull'innovazione. Nella sua battaglia contro Spinoza, che sosteneva che la Bibbia dovesse essere studiata come un documento umano, Sofer scrisse che così facendo avrebbe negato tutti gli "hiddushim" - nuove comprensioni - che si sarebbero potuti creare se fosse stata studiata come un documento divino, a più strati e con significati nascosti. Mentre il nome Sofer è la traduzione diretta del suo nome "Schreiber", "Chatam" è l'acronimo di "Hiddushei Torat Moshe" - "Nuove intuizioni della Torah di Mosè" (anche se potrebbe anche riferirsi a una parte particolarmente opaca dell'ultima profezia nel libro di Daniele (Taci le parole e sigilla il libro" (Stom ha'devarim va'chatom ha'sefer) Daniele 12:4).
Quando penso ai miei illustri antenati e al loro rigoroso desiderio di proteggere un ebraismo tradizionalista che significava fare le cose come erano sempre state fatte, provo una certa simpatia. In un mondo di grandi cambiamenti, la tentazione di appellarsi alla tradizione per avere stabilità e certezza e di unificarsi dietro norme condivise è altrettanto grande. Tuttavia, sono grata che non abbiano portato avanti l'argomento e che invece i modernizzatori dell'ebraismo abbiano prosperato accanto ai tradizionalisti. Perché l'ebraismo classico ha sempre operato secondo questa dinamica: l'antico viene onorato e custodito e allo stesso tempo rinnovato.

Noi diciamo in yotzer  וּבְטוּבוֹ מְחַדֵּשׁ בְּכָל יוֹם תָּמִיד מַעֲשֵׂה בְרֵאשִׁית Che Dio nella bontà divina rinnova ogni giorno le opere della creazione. La nostra liturgia parla di un continuo rinnovamento - Dio è descritto come colui che "per misericordia dà luce alla terra e a coloro che la abitano" - il primo atto creativo che si ripete ogni mattina grazie alla misericordia e alla bontà di Dio. La creazione si rinnova continuamente, quindi anche noi, in quanto parte della creazione, possiamo rinnovarci. Questo grazie alla bontà e alla misericordia di Dio nei nostri confronti. Non dobbiamo rimanere bloccati in comportamenti che non ci giovano o che sono semplicemente abitudinari e privi di significato: possiamo, anzi dobbiamo, rinnovare non solo noi stessi, ma anche il nostro mondo.
La parola ebraica che indica l'anno è "Shanah" e ogni Rosh HaShanah, ogni inizio d'anno, è un invito e un'opportunità per il nostro rinnovamento. La radice della parola Shanah significa sia ripetere (come il numero due) sia cambiare. Cosa faremo quest'anno? Ripetere quello che abbiamo sempre fatto o cambiare e rinnovare noi stessi e la nostra vita? La realtà è probabilmente una via di mezzo, in quanto siamo in tensione tra il comodo "business as usual" e il timoroso desiderio di cambiare alcuni aspetti di noi stessi e della nostra vita.
Viviamo la nostra vita ripetendo molte delle nostre abitudini e apportando piccoli cambiamenti incrementali. Il tempo ebraico non è circolare ma a spirale: ci ritroviamo a Rosh Hashanah, ma non siamo la stessa persona dell'anno scorso. Se tutto va bene, lentamente ci ritroviamo cambiati - non drasticamente diversi, ma una versione rinnovata di noi stessi. Abbiamo un Lev Chadash, una nuova direzione e un nuovo cuore all'interno della persona che siamo sempre stati. Questa è la bellezza dell'anno ebraico e della tradizione del rinnovamento al suo interno.
Rav Kook ha scritto "Il vecchio sarà rinnovato e il nuovo sarà reso santo". Fa parte della sua esplorazione sull'osservazione dell'anno Shmita in Terra d'Israele, ma è vero per ogni aspetto dell'ebraismo.
Questa è la sfida che ci viene posta oggi - e ogni giorno. Ci viene chiesto di rinnovarci e di santificarci. Ci viene ricordato che Dio rinnova la creazione ogni giorno grazie alla misericordia e alla bontà divina, e che possiamo accettare questa misericordia e rinnovare anche il nostro essere, ripetendo e cambiando, passo dopo passo, evolvendo il nostro essere ebrei mentre troviamo i nostri hiddushei Torat Moshe - nuovi significati nell'antico testo che non cambia mai.
Il profeta Ezechiele ci ricorda la promessa di Dio di darci un cuore nuovo e uno spirito nuovo... e voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio.

וְנָתַתִּי לָכֶם לֵב חָדָשׁ, וְרוּחַ חֲדָשָׁה אֶתֵּן בְּקִרְבְּכֶם

וִהְיִיתֶם לִי, לְעָם, וְאָנֹכִי, אֶהְיֶה לָכֶם לֵאלֹהִים…………
È il momento di rinnovarsi, di tornare e di fare i cambiamenti che ci permetteranno di mantenere questa promessa. Perché, come disse Hillel, se non ora, quando?

SHANÀ TOVÀ

23/09/2022 04:01:34 PM

Sep23

di Carlo Riva

Care e Cari, 

anche a nome del consiglio direttivo della AEP Sinagoga Lev Chadash, rivolgo a tutti voi e alle vostre famiglie il più caloroso Shanà Tovà u metukà,  augurando che il 5783, che sta per iniziare, porti in tutte le vostre case, nel Paese e nel mondo che viviamo pace, salute e serenità, dissolvendo le nubi che nel periodo più recente hanno accompagnato le nostre vite. 

Certo, continueremo a mantenere i comportamenti responsabili che la situazione ancora necessita, ma il fatto di poterci ritrovare, insieme a rav Sylvia Rothschild, a celebrare le festività, nella nostra sinagoga di piazza Napoli, dopo le limitazioni a cui la pandemia ci ha costretto, ritengo ci debba far sentire tutti un po’ orgogliosi. In questi due anni e mezzo, infatti, Lev Chadash ha continuato essere una comunità viva, superando le tante difficoltà che si sono presentate in generale in ogni settore della società. La dimostrazione della nostra vivacità sono i molti volti nuovi, in gran parte di giovani, che hanno progressivamente arricchito con la loro presenza le nostre attività. Ritengo che questo sia un fatto importante, anche per il futuro a breve termine di Lev Chadash. E con il nuovo anno, anche il gruppo dirigente di Lev Chadash verrà rinnovato, a cominciare dalla presidenza, per dare all’associazione e alla sinagoga una struttura organizzativa più efficace.

Sul piano materiale, alcune novità sono state anticipate da quelle che questa estate hanno iniziato a interessare i locali della sinagoga – come potrete verificare partecipando alle celebrazioni di inizio anno – e rese possibili per l’impegno (sotto forma di finanziamento e di lavoro fisico) di alcuni di voi. Al di là dei doverosi e più sentiti ringraziamenti, sono sicuro che per loro la gratificazione migliore sarebbe constatare che l’esempio che ci hanno fornito venga seguito da tanti altri. Insomma, a ventun anni dalla sua nascita ufficiale – l’attività era iniziata nel 1999 – Lev Chadash sta crescendo, ma per farlo ulteriormente, per metterla in grado di poter fornire, e al miglior livello, tutti i servizi che una comunità ebraica deve rendere ai suoi aderenti ha bisogno del contributo (diretto e indiretto: le forme sono molteplici) di tutti quanti la costituiscono.

Non solo Lev Chadash sta crescendo, ma aumentano le adesioni alle altre comunità progressive, già presenti in Italia e aderenti alla Fiep (Beth Shalom a Milano, con cui stiamo intensificando le collaborazioni, Beth Hillel a Roma, Shir Hadash a Firenze, Or’Ammim a Bologna, e la chavurah di Bergamo Har Sinai), a cui presto potrebbero aggiungersi nuove realtà in altre città italiane.

In conclusione, vi invito a leggere un intervento che rav Sylvia ci ha inviato a proposito del tema dell’ultima Giornata Europea della Cultura Ebraica, ‘Rinnovamento’, in alcuni casi interpretato per caricaturizzare, semplificandole, le nostre posizioni a proposito dell’ebraismo.

Shanà Tovà

 

Carlo Jossef Riva, 

presidente dimissionario di Lev Chadash,  presidente della Fiep Federazione Italiana Ebraismo Progressivo

OFER LELLOUCHE per le vittime di Meina

13/02/2022 01:18:47 PM

Feb13

 

Domenica 13 febbraio 2022 è stata inaugurata sul Lungolago di Meina una monumentale e intensa scultura di Ofer Lellouche, in memoria delle vittime dell’eccidio di Meina perpetrato nel settembre 1943.

Ringraziamo il Comune di Meina e tutte le istituzioni che hanno reso possibile quest’opera, lo scultore Ofer LelloucheRossana Ottolenghi, figlia di Beki Behar, testimone sopravvissuta all’eccidio e le numerose persone e associazioni che sono intervenute.

È stato toccante vedere una così larga partecipazione anche da parte di Lev Chadash a testimoniare e perpetuare l’imperativo Zachòr.

NEWS dalla FIEP

06/02/2022 01:04:29 PM

Feb6

Lev Chadash si complimenta con Carlo Jossef Riva e Ben Fantini, che domenica scorsa sono stati eletti rispettivamente Presidente e Segretario della FIEP-Federazione Italiana per l’Ebraismo Progressivo.

Auguriamo loro buon lavoro!


Lev Chadash

LE DONNE NELLA SHOAH

26/01/2022 07:30:47 PM

Jan26

 

Bruna Bertolo, Le Donne nella Shoah, SusaLibri, 2022.

Nel libro si parla anche di Becky Behar, madre della nostra cara Rossana, e dell'eccidio perpertato a Meina nel 1943.

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'Un libro che racconta alcuni momenti del pozzo più nero e profondo del nostro '900: la Shoah. E lo fa attraverso una storia forse meno conosciuta, la deportazione femminile. Uomini e donne furono ugualmente sommersi, ma le donne subirono violenze che le depredarono anche della loro femminilità. Bruna Bertolo parte dalle leggi razziali del 1938 per spiegare il clima di emarginazione che crebbe nei confronti degli ebrei. Racconta le feroci stragi del Lago Maggiore, sottolineando soprattutto alcuni personaggi femminili. Ricorda la grande razzia degli ebrei nel ghetto di Roma e l'unica donna sopravvissuta, Settimia Spizzichino. Evidenzia le prime testimonianze femminili con gli scritti di Luciana Nissim, Giuliana Tedeschi, Liana Millu, Frida Misul, Alba Valech. Termina con le "Voci di oggi": Edith Bruck, Goti Bauer e Liliana Segre. Nella prefazione del volume di Liana Millu, Il fumo di Birkenau, parlando delle donne rinchiuse in questo Lager, Primo Levi scrisse: "La loro condizione era assai peggiore di quella degli uomini e ciò per vari motivi: la minore resistenza fisica di fronte a lavori più pesanti e umilianti di quelli inflitti agli uomini; il tormento degli affetti familiari; la presenza ossessiva dei crematori, le cui ciminiere, situate nel bel mezzo del campo femminile, non eludibili, non negabili, corrompono col loro fumo empio i giorni e le notti, i momenti di tregua e di illusione, i sogni e le timide speranze".'

ven, 26 aprile 2024 18 Nissàn 5784